Il PNRR dedica pagina 36 ad uno degli interessi generali che il nostro Paese non è ancora riuscito a concretizzare: la parità di genere e generazionale. Non è solo un problema delle donne: il loro mancato impiego pesa, tra le varie stime istituzionali, almeno 6 punti di PIL mancato. E’un problema di tutto il Paese. Per affrontarlo, il PNRR impone una cosiddetta ‘clausola di condizionalità’, vale a dire che gli operatori economici che si aggiudicheranno i fondi PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) e PNC (Piano nazionale degli investimenti complementari) sono obbligati a destinare ai giovani under-36 e alle donne almeno il 30 per cento dell’occupazione aggiuntiva creata con il PNRR. In altre parole, chi vince uno di questi bandi deve assumere una quota di donne e di giovani. Ma sarà davvero cosi?
La misura nel PNRR
Tecnicamente, la misura è disciplinata dall’art. 47 del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77 e dalle Linee guida di cui al D.M. 7 dicembre 2021. Di fatto, si tratta di un dispositivo innovativo ma la previsione di margini di deroga particolarmente ampi ne svuota il carattere di obbligatorietà, facendolo diventare, nella migliore delle iptesi, una buona prassi. Un’occasione mancata, in sostanza. Una interessante analisi è stata avanzata da Valentina Cardinali, dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (INAPP). La Cardinali, che fa parte del gruppo di lavoro “Occupazione femminile e disparità salariali”, istituito dal Ministro del Lavoro e delle politiche sociali, in un paper, attira l’attenzione su come l’obbligo non sia direttamente applicabile: la misura, per essere operativa, deve essere inserita e disciplinata dalle stazioni appaltanti all’interno dei bandi di gara. Il punto è che ci sono possibilità di deroga a tale obbligo, previste dalle Linee guida del D.M. 7 dicembre 2021 che indicano persino come e in che misura le stazioni appaltanti che non assumono giovani e donne possono andare incontro ad una decurtazione dei finanziamenti connessi. In sostanza, esiste la scappatoia per non assumere donne e giovani.
Il vulnus
Le deroghe alle quali si riferisce la Cardiali sono sia totali (completa inapplicabilità) che parziali (abbassamento della quota del 30%). E’interessante capire quando sono applicabili: quando “l’oggetto del contratto, la tipologia o la natura del progetto o altri elementi puntualmente indicati dalla stazione appaltante (come, ad esempio, il tipo di procedura, il mercato di riferimento, l’entità dell’importo del contratto ecc.) rendono la clausola impossibile o contrastante con obiettivi di universalità e socialità, efficienza, economicità e qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”. Altra eventualità è quella della cosiddette clausole sociali di riassorbimento occupazionale: si può derogare per “garantire stabilità occupazionale agli addetti che escono da una precedente fornitura”.
Cosa può succedere?
Può succedere che le motivazioni della deroga vadano a inficiare il dispositivo stesso. Ovviamente, se le stazioni appaltanti ricorrono alla deroga devono fornire “adeguata e specifica motivazione prima o contestualmente all’avvio di procedura ad evidenza pubblica”. Ma, commenta la Cardinali, “non appare del tutto comprensibile, il riferimento di potenziale contrasto col principio di ‘universalità’ (la condizionalità nasce già per target specifici), ‘socialità’, ‘economicità’ (il costo del lavoro è standard),’qualità del servizio’ e ‘efficienza’ (affermazioni che addirittura inducono a immaginare ex ante una resa diversa del servizio collegata al genere o all’età). Proprio la genericità delle motivazioni espresse, induce ad ampliare a dismisura l’ambito di applicazione della deroga”. Per i giovani, la deroga si applica “specificatamente nei casi in cui l’esperienza richiesta nel profilo non coincida con l’età anagrafica del/la giovane. Per le donne, si può derogare in presenza di un “tasso di occupazione femminile nel settore Ateco 2 Digit di riferimento del progetto, inferiore al 25% della media nazionale”.
I motivi della misura
La clausola era stata pensata per affrontare importanti criticità strutturali nel nostro mercato del lavoro e del nostro sistema di inclusione socioeconomica: tasso di occupazione femminile stabilmente al di sotto del 50% che diventa 33% al Sud, con un gap medio rispetto agli uomini, del 20%. Solo nel 2021, si sono registrate 35mila dimissioni volontarie di donne con figli da 0 a 3 anni: donne che accedono alla Naspi barattando cosi ogni sviluppo professionale, rinunciando alle proprie competenze. Il tutto avviene in un contesto di inefficiente welfare familiare. Chi lavora ha spesso contratti di lavoro non stabili, discontinui e dal 2009 è in costante aumento il part time involontario. Il differenziale retributivo medio con gli uomini è vicino al 43% a livello nazionale. Le donne lavoratrici autonome e indipendenti scontano minori tutele e accessi differenziati al welfare rispetto alle lavoratrici dipendenti e gap retributivi con i colleghi uomini sopra la media.
Due osservazioni
La prima è un vero paradosso. Dice la Cardinali: “se si utilizza come indicatore di riferimento per rendere ammissibile la deroga proprio la struttura del mercato del lavoro attuale si sceglie di favorire più occupazione femminile laddove le donne ci sono già invece di aumentare le opportunità che solitamente sono precluse”. Come se il mercato del lavoro fosse immutabile, se ne assumono i limiti per giustificare una deroga alla clausola che era nata appunto con l’obiettivo di cambiare il mercato del lavoro a favore di donne e giovani. Viene cosi meno la possibilità del cambiamento.
Seconda osservazione: l’indicazione del tasso di occupazione totale nasconde le profonde differenze di genere tra i profili professionali e i livelli di inquadramento. Per fare un esempio, nelle costruzioni ci sono poche donne che fanno le operaie ma tante che fanno gli ingegneri edili. Mescolando tutto insieme, si ottiene un dato basso che va cosi a giustificare il permanere dello status quo attraverso la deroga, andando cosi in senso inverso alla mission con la quale era nata la clausola. E quindi per le donne potrebbe non cambiare quasi nulla. Giustamente si chiede la Cardinali, “Perché non aumentare tali presenze anche se poche? Perché la condizionalità non può fornire loro opportunità? “. Altra stranezza: in caso di stazioni appaltanti regionali, il riferimento al dato occupazionale è nazionale e non regionale, come se non ci fossero nel Paese fortissimi divari territoriali e di genere.
Perché le deroghe?
La domanda a questo punto sorge spontanea: perché mettere un obbligo e poi le deroghe che lo inficiano? La Cardinali dà una risposta: “La prevalenza di un approccio burocratico si è sposata con il timore delle imprese di oneri adempimentali insostenibili – e incomprensibili – in un clima di sostanziale diffidenza e avversione ai sistemi di quota, come il dibattito sollevato dal dispositivo poco dopo la sua approvazione ha manifestato, evidenziando ancora un substrato di carattere ideologico attorno al meccanismo di quota e alle cd. ‘questioni di genere’”. In sostanza, si è cercato di arrivare ad una mediazione che ha dato come frutto il voler spuntare un dispositivo innovativo riducendone il suo potenziale di rottura delle dinamiche ordinarie.
Cosa si può fare?
Monitorare non in base all’ “efficacia’ o ‘inefficacia’ – misurata rispetto al volume occupazionale registrato, la cui parametrazione dipende oltretutto dal meccanismo di raccolta dati e monitoraggio previsto dal decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77 e affidato non direttamente al sistema Regis, ma all’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione). Conclude la Cardinali: “La parola chiave con cui andrà valutata l’applicazione della condizionalità, pertanto, se non potrà essere ‘efficacia’ potrà essere semplicemente ‘funzionalità’. Pertanto, sarà importante capire il volume, la localizzazione e la motivazione delle deroghe delle stazioni appaltanti e il caso di non copertura della quota nei progetti ove prevista”.