Una ricerca inglese ha dimostrato che le figure lavorative più ricercate hanno preso l’abutudine di dire si alle proposte di lavoro solo se le aziende garantiscono loro la massima flessibilità. Una realtà alla quale le aziende dovranno adeguarsi: i talenti chiedono di poter lavorare da qualunque posto, anche dalla spiaggia.
Un rischio per le aziende tradizionali
Secondo Raj Choudhury, economista della Harvard Business School, le aziende che diranno no a queste richieste perderanno forza lavoro.
È sempre stato così? Secondo l’economista sì: nel corso della storia sono stati i candidati più ambiti a decidere i tempi di lavoro. Basti pensare che all’inizio degli anni Novanta, solo gli amministratori delegati usavano le mail.
Un percorso iniziato in Italia nel 1997, quando la legge n.196 introdusse il lavoro temporaneo (interinale) e regolò i contratti di collaborazione coordinata e continuativa e i contratti a progetto.
Nel 2003, la legge n.30 eliminò il lavoro interinale e introdusse altri contratti flessibili: co.co.pro, intermittente, occasionale e accessorio. Nello stesso anno, lo Stato intervenne di nuovo per agevolare i contratti part-time.
Nel 2017, la legge n.81, definì l’attuale smart working. Chi lavora da remoto gode degli stessi diritti del lavoratore in sede: parità di trattamento economico, tutela in caso d’infortuni e malattie.
La rivoluzione del Covid
Il dibattito sulla flessibilità si è acceso durante il Covid, periodo in cui è diventato generalizzato il modello di lavoro tre giorni in ufficio e due da casa. Nel post Covid molte aziende hanno continuato a mantenere questa modalità di lavoro, proprio perchè richiesta dai dipendenti. Si è verificato un cambiamento culturale nel mondo del lavoro e le aziende che sopravviveranno dovranno essere capaci di cavalcarlo.